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Alessio Barchitta


KICK ME
I FRAMMENTI DEL PASSATO E LE SFACCETTATURE DEL PRESENTE

Conversazione con l’artista Alessio Barchitta



Essenziali, puliti, giocosi. Le differenti tonalità e sfumature e i delicati motivi ornamentali delle loro forme modulari, rendono piacevolmente belle le opere che mi sono state sottoposte: dei palloni da calcio
Anzi, «delle sculture sferiche che ricordano, per aspetto e dimensioni, palloni da calcio» mi spiega Alessio Barchitta, giovane artista siciliano che vive e lavora fra Milano e Barcellona Pozzo di Gotto, cui ho domandato di parlarmi di Kick me, la sua opera. ​​​​​​​
Sottigliezza, quella presente nella sua precisazione, che già lascia intuire la fresca intelligenza del suo intervento e di ciò che questo si rivelerà al di là del primo impatto esteticamente tanto gradevole, in grado di stimolare – oltre che l’occhio – una attualissima riflessione. 
Queste incantevoli sculture poggiano su un prato sintetico, «uno spazio di 600 x 200 x H300 cm circoscritto da un tessuto nautico che riporta le stampe di cinque bunker risalenti al secondo conflitto mondiale». 
Si tratta, difatti, di un’installazione site-specific, un’opera «che si presenta come ambiente o come un estratto dello stesso» prosegue Alessio. 
I suoi “palloni” possono diventare opere autonome, «abbandonando il contesto per essere ricollocate diversamente, come nel caso di DISCONTINUO an open studio a Barcellona Pozzo di Gotto o Le stanze del contemporaneo presso Palazzo Martinengo di Brescia o, ancora, Fluid like concrete, tough like sand presso la galleria Amy-d di Milano». 
Proseguendo, la nostra conversazione ha gradualmente svelato l’arte e l’artista che si celano dietro a quei “palloni”.

Perché proprio il pallone? È stato scelto per un particolare significato della tua esperienza personale o proprio per la peculiarità di avere un posto nell’esperienza personale di ciascuno?

«Alcuni dei miei lavori si travestono da altro per essere immediatamente riconosciuti. Faccio uso di immagini archetipe e collettivamente codificate per spostare l’attenzione su aspetti che richiedono un tempo di riflessione differente dallo sguardo facile che queste hanno in apparenza. È il caso di Kick me, un’allusione al pallone da calcio che in qualche modo lega tutti. Del resto, chi non ha mai giocato a palla?»

Kick me. È chiaro che già il titolo stesso che hai dato alla tua opera abbia un ruolo attivo, creando un primo contrasto.

«L’opera invita lo spettatore a compiere un’azione, ma allo stesso tempo la nega poiché il materiale non può adempiere alla funzione solita del pallone. Daresti mai un calcio ad un oggetto fatto di piastrelle e malta cementizia?»

Ecco che si svela il primo inganno: la normale funzione di quello che la nostra mente ha riconosciuto come un pallone da calcio, emblema dell’oggetto ludico, viene negata nel momento in cui ci rendiamo conto che questo sia in realtà un agglomerato di piastrelle. Da questo primo contrasto si innesca così, ironicamente, una prima riflessione.

«Kick me stimola desiderio e privazione. Ogni elemento è formato da due aspetti che vivono l’uno con l’altro, ma in contrasto. Tutto è ludico e nulla è ludico, ogni cosa nasce da una prima riflessione intorno al gioco per diventare altro grazie ai materiali che compongono i vari elementi».

«L’estetica apparentemente disimpegnata è in contrasto con la materia» si legge, a riguardo, nella scheda dedicata sul tuo sito (https://bit.ly/3cDQYC8). 
Indubbia è l’importanza del materiale e della sua provenienza, ce ne vuoi parlare?

«È proprio nella rilettura dei materiali che emergono i contrasti. Andiamo per punti.

Il “pallone” è realizzato con piastrelle recuperate dai due torrenti che delimitano il mio paese di nascita [Barcellona Pozzo di Gotto]: si tratta quindi di rivestimenti d’interni, di rifiuti edilizi smaltiti abusivamente.

Il prato sul quale poggiano i “palloni” è anch’esso “reperto” del torrente. Si possono notare dei filamenti erbosi naturali che emanano un forte odore: è della ramigna cresciuta tra le fibre plastiche del tappeto. Ecco come il vero ed il falso convivono nello stesso soggetto.

La “tenda”, che si ispira ai rifugi che i bambini sono soliti costruire in casa, diventa uno spazio per adulti; sul tessuto sono impresse le immagini di cinque bunker della Seconda guerra mondiale, alcuni dei quali divenuti improvvisati rifugi per senzatetto. I bunker sono costruiti alla foce dei torrenti: i tre elementi parlano dunque della medesima geografia».

Il materiale edilizio del quale sono costituite le sculture, i bunker, la tenda: si tratta di aspetti legati al tema dell’abitare, tema attualissimo che si lega, inoltre, alla particolare situazione che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo in seguito alle misure di lock down.

«L’abitare è un aspetto che spesso ritorna nei miei lavori: abitare uno spazio delimitato o, in senso più vasto, una geografia. L’essere obbligati a rimanere in casa è un fatto epocale, un’inversione (forzata) di marcia che certamente ha fatto riflettere su quanto sia di vitale importanza l’ambiente abitativo. Negli ultimi cento anni, lo spazio “casa” è passato dall’essere il punto focale di un individuo a diventare oggi, per svariate ragioni, un vincolo
Per definirsi “contemporanei” bisogna recidere radici e sapersi adattare, diventare radicanti e fare in modo di non essere troppo “definiti” (sarebbe un rischio): dobbiamo poter essere ovunque e nel minor tempo possibile, vere e proprie identità fluide. 
Così anche l’architettura, da solida e durevole, predilige caratteristiche meno vincolanti per ripensarne l’estetica o sostituire un edificio nel minor tempo possibile. Gli spazi vengono ridotti perché passiamo gran parte del tempo fuori casa e, non avendone cura, non riusciamo a identificare a pieno noi stessi. In questo momento credo che “tutto il mondo sia paese”, di certo chi vive in una città come Milano avrà attutito diversamente il colpo da chi è abituato a vivere in luoghi caratterizzati da tempi già più dilatati».
Quando si ha a che fare con l’arte contemporanea, una domanda che spesso sentiamo è “Cosa vuol dire? Io l’arte di oggi non la capisco”. Ritieni che in un contesto espositivo una spiegazione – come quella che ci hai dato in questa sede – risulti necessaria, superflua o fuori luogo? Come ti comporti?

«L’arte è una lingua. Se non si conoscono le sue regole grammaticali può risultare complesso comprenderla appieno. Non dimentichiamo che quello che oggi risulta di facile lettura non lo è stato quando, a suo tempo, si trattava di contemporaneo. Se prendiamo ad esempio la pittura sacra, questa fa un grande uso di simboli e citazioni che, per chi non ne conosce l’origine, rimangono meri richiami all’oggetto raffigurato. Intendo dire che è normale non capirla sempre, anche io spesso non la capisco; l’arte contemporanea è meticcia, aspetto che la rende affascinante e impossibile da delineare all’interno di un flusso stilistico determinato.

Alcuni detestano il foglio di sala (dove solitamente ci sono delle informazioni riguardo all’artista e un testo critico sulla mostra), altri no. I primi si rivolgono, solitamente, ad un pubblico di addetti; i secondi hanno un atteggiamento più inclusivo; altri ancora ritengono che ognuno possa vederci quel che vuole. Non c’è una regola, personalmente posso dire di apprezzare il testo quando mi dà informazioni utili alla lettura, piuttosto che una didascalica descrizione di ciò che è presente in sala. Il testo deve portarmi fuori dalla mostra, altrimenti mi sembra di stare al museo di storia antica, dove ciò che sto guardando mi riguarda, ma neanche troppo.
Non mi dispiace chiarire dubbi riguardo ad un mio lavoro, preferisco però che sia l’opera a farlo, rendendosi autonoma, senza bisogno di me come di alcun foglio di sala. Credo non ci sia soddisfazione maggiore».
Non ho potuto fare a meno di notare come, dietro ad un’opera come Kick me, si celi tutto un sostrato che non può non provenire dalla conoscenza di quanto avvenuto in ambito artistico negli ultimi cento anni (almeno). Quale è stata la tua formazione?

«Il mio percorso di studi inizia con grafica pubblicitaria presso l’Istituto Statale d’Arte di Milazzo. All’età di diciotto anni mi trasferisco a Milano dove frequento l’Accademia di Belle Arti di Brera, conseguo il diploma di laurea triennale in Pittura e concludo con il titolo di Arti Visive al biennio. 
Parallelamente al percorso di studi fondo il Collettivo Flock, associazione no-profit che si occupa di arte contemporanea nel mio territorio d’origine. Tale esperienza è stata molto utile per comprendere diversi aspetti che l’Accademia non approfondisce, per esempio come organizzare una mostra sia a livello pratico che burocratico, a interagire dunque con gli enti comunali per l’uso di strutture pubbliche e concessioni di vario genere; a intraprendere collaborazioni con curatori o altri artisti; sino a promuovere il progetto e interagire con un pubblico differente rispetto a quello di una grande metropoli».

Ritieni che, oggigiorno, la conoscenza della storia dell’arte sia indispensabile per un artista?

«Ritengo che un artista debba assolutamente conoscere la storia dell’arte, come in ogni altro ambito lo studio è disciplina e professionalità. Grazie alla ricerca è facile comprendere quanto l’arte sia legata al sociale e in stretta relazione con la storia. S’intuisce che l’artista non può essere scisso dal suo contesto o periodo temporale poiché, altrimenti, si tratterebbe solo di un bravo artigiano».
Scritto da: Federico Celesti
Editor: Angela Nardelli
Artista: Alessio Barchitta

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